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L’Italia a fette

La nostra nazione ha dovuto affrontare in questi mesi una delle prove più ardue dal dopoguerra, la gestione della crisi causata dal COVID-19 ha evidenziato ed amplificato le criticità del nostro sistema-paese, per la verità già preesistenti, ma la crescita ed il miglioramento sono quasi sempre connessi alla necessità, al bisogno di cambiare e le avversità possono essere incredibili occasioni di crescita e miglioramento.

E’ in quest’ottica che bisogna guardare a due fenomeni che più di ogni altro possono rappresentare un problema o una risorsa dell’Italia nei prossimi mesi ed anni, la differenza la farà il modo in cui si vorrà guardare ad essi.

-Sanità-

La prima di queste questioni è senza dubbio la gestione della Sanità sul territorio nazionale, la riforma del Titolo V della Costituzione – avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 – ha affidato la tutela della salute alla legislazione concorrente tra Stato e Regioni.  l’art. 117 della Costituzione in particolare stabilisce che lo Stato mantiene la competenza legislativa esclusiva in una serie di materie specificamente elencate, mentre il comma 3 dello stesso articolo decreta che le Regioni possono legiferare nelle materie di competenza concorrente, nel rispetto dei princìpi fondamentali definiti dallo Stato.

Purtroppo, tale “concorrenza” è stata totalmente snaturata generando di fatto un federalismo macchinoso in cui non tutti gli italiani hanno accesso al medesimo standard qualitativo nelle prestazioni erogate, le quali molto spesso palesano delle differenze in quanto a mezzi e strutture da rendere necessarie vere “migrazioni di ammalati” sul territorio nazionale. La riforma del Titolo V che mirava alla realizzazione di un federalismo solidale, ha finito per generare una deriva regionalista, con differenze macroscopiche dei servizi erogati ed in cui l’accesso alle prestazioni sanitarie risulta essere estremamente iniquo. Solo teoricamente la carta costituzionale garantisce “universalità ed equità di accesso a tutte le persone” tuttavia, i dati smentiscono continuamente i princìpi fondamentali su cui si basa il SSN.

L’emergenza sanitaria in corso ha ulteriormente evidenziato come non sia tollerabile insistere su una gestione della salute pubblica delocalizzata, come non sia più tollerabile che regioni anche confinanti creino una disparità così evidente nella tutela dei diritti di rango costituzionale, celebrando le eccellenze come un successo personale e lasciando che le responsabilità si perdano in un dedalo burocratico che finisce per rendere impossibile identificare un unico responsabile. E’ evidente il principio per il quale, quando la colpa è di tutti finisce per essere di nessuno, in un continuo rimbalzo tra stato centrale e regioni che finiscono per incolparsi a vicenda per le scelte sbagliate. Tutto quanto appena descritto finisce per esser un peso interamente a danno dei più fragili utenti che una pubblica amministrazione possa conoscere, gli ammalati, già colpiti nel fisico e spesso ulteriormente feriti nella dignità, quando la degenza si trasforma in un’ulteriore mortificazione, o quando comporta un rischio per la salute a causa delle infezioni nosocomiali, o quando per poter aspirare a degli standard più alti deve comportare il distacco dai propri familiari, non sempre in grado di sostenere le spese per risiedere fuori regione per restare accanto ai propri cari nel momento della sofferenza.

Possiamo affermare senza timore di essere smentiti che tale esperimento ha fallito su tutta la linea, che è oggi indispensabile rimodulare la sanità pubblica armonizzandola sul piano nazionale riassegnando lo scettro della gestione al governo centrale e lasciando alle regioni solo l’ordinaria amministrazione, identificando con chiarezza i responsabili della gestione delle somme di denaro loro assegnate, dicendo addio a quei mortificanti pellegrinaggi che, è bene ribadirlo, non sono un capriccio, ma spesso una concreta necessità per veder aumentare le possibilità di esito positivo di operazioni ad alto rischio.

Abbiamo assistito negli ultimi mesi ad un acutizzarsi di questa drammatica differenza regionale proprio nella gestione dell’emergenza COVID-19. Regioni vicine e governate dalle stesse forze politiche, hanno gestito in maniera totalmente diversa la situazione di crisi con esiti assolutamente antitetici. Il veneto è riuscito a contenere e gestire un’emergenza che invece in Lombardia è apparsa strabordante anche a causa degli atteggiamenti ondivaghi di chi non è riuscito a garantire un’assistenza che sapesse fronteggiare tempestivamente la crescente minaccia. In Lombardia in particolare si è agito d’istinto e si sono trasferiti i pazienti nelle strutture ospedaliere, senza che il personale fosse sufficientemente protetto. Quest scelta ha rappresentato una bomba ad orologeria che ha favorito enormemente il diffondersi del contagio. In Veneto, invece, è stato effettuato un lavoro molto più accorto e scrupoloso da parte delle Asl e dai medici di base, che sono intervenuti sui casi segnalati. Per questo motivo, i malati sono stati isolati il più possibile utilizzando delle piccole task force di medici ed infermieri capaci di assistere a domicilio gli ammalati, garantendone l’isolamento. Quello illustrato è solo uno degli aspetti ove i è palesata l’iniquità di un sistema che rimette alle regioni la gestione di un bene così sensibile, basti pensare anche solo alla capacità di approvvigionarsi di mascherine protettive o di garantire un rapido incremento dei posti disponibili di terapia intensiva. È lecito dunque perpetrare un tale tipo di sperequazione tra i pazienti? È possibile delegare alla semplice capacità o incapacità delle amministrazioni periferiche la concretizzazione del diritto alla salute dei cittadini? Ad avviso di chi scrive questo deficit non è più tollerabile e va attuata una seria riprogrammazione dell’intero SSN, con uno stato centrale che torni ad occuparsi in prima persona del problema, garantendo interventi seri e mirati che possano rendere giustizia ad un principio cardine dell’ordinamento da garantire finalmente a tutti e non solo a qualcuno. Non è insomma più pensabile che la regione di nascita sia un legittimo discrimine tra la vita e la morte dei cittadini italiani

-Turismo-

La sanità tuttavia non è l’unico settore che necessiterebbe di un immediato recupero della gestione da parte dello Stato, L’Italia è nel 2019, il quinto paese più visitato al mondo con 94 milioni di visitatori stranieri secondo l’ENIT, con un numero pari a 113,4 milioni di presenze straniere nelle sole città d’arte e con 216,5 milioni di presenze totali. Ed ecco il paradosso, secondo stime della Banca d’Italia del 2019, il settore turistico genera poco più del 5% del PIL nazionale e rappresenta oltre il 6% degli occupati. Anche in questo caso è evidente il cortocircuito del nostro sistema Stato, che pur avendo a disposizione un potenziale unico in Europa e nel mondo se si pensa al connubio tra beni culturali e litorali meravigliosi, riesce incredibilmente a sprecare una chance di benessere praticamente assicurato.

Il primo paradosso che evidenzia come la gestione di una risorsa chiave per il benessere nazionale sia totalmente affidato al caso ed abbandonato a sé stesso, è il fatto che non esista un Ministero del Turismo, il che in un paese che potrebbe praticamente, almeno in linea teorica, vivere quasi solo di quello più che un paradosso è un vero e proprio crimine! Non si può ancora oggi vivere nella preistorica convinzione che il turismo sia una sorta di fiore selvatico, che sia qualcosa da demandare all’iniziativa privata e che non necessiti di un piano organizzato e strutturato con investimenti mirati che riescano ad offrire degli alti standard in termini di servizi ed offerte.

Pensate a Dubai, nonostante gli enormi capitali investiti, quello che era poco più di un secchio di sabbia fino a pochi anni orsono, non si sarebbe potuta trasformare in una ambita meta turistica senza un piano ben organizzato dal governo che avesse garantito infrastrutture, ricettività, sicurezza, e tutti i presupposti necessari a rendere un luogo appetibile anche, e non solo, per ‘investimento privato. In Italia succede l’inverso, l’investitore privato è chiamato a sfruttare come può e come sa un determinato luogo della penisola e forse, solo eventualmente e comunque molto dopo, potrebbe pensarsi ad un intervento statale. Tutto ciò non è più immaginabile, il “bene turismo” è semplicemente troppo importante per la nazione per non richiedere un intervento coordinato dello Stato, semplicemente questa noncuranza che lascia quasi metà del paese abbandonata a sé stessa è un lusso che non possiamo più permetterci. Se grandi città d’arte sono un fanalino di coda per numero di turisti, poiché manca una saggia organizzazione delle strutture, dei trasporti e dei servizi, a rimetterci in termini economici non è quella singola città o quella unica regione ma tutta la nazione ed oggi, in un momento storico in cui il turismo verrà duramente colpito dall’impossibilità di spostarsi e dalla necessità di mantenere il distanziamento sociale, questi errori banali vanno semplicemente corretti con la massima urgenza e grandissima organizzazione. E’ ora che l’Italia si accorga di poter essere la California d’Europa e smetta di voler snaturare se stessa rinunciando a giocare le proprie carte migliori considerando seriamente la possibilità per lo Stato centrale di intervenire con forza e programmazione su quelle che sono gli ambiti chiave per il benessere del paese.

 

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